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Un soffio di Babele

Un esempio etnografico: il flusso di informazioni tra indigeni, attivisti e giornalisti a partire da un villaggio arabo-beduino demolito in Israele

di Alex Koensler

Quello che vorrei raccontare è come la storia di un paese arabo-beduino demolito (e ricostruito) viaggia tra indigeni, attivisti e giornalisti. Seguire questo viaggio significa anche spostare lo sguardo etnografico tra i diversi livelli. Le demolizioni di case arabo-beduine sono un tema «caldo» e contestato nel Negev, «eventi diagnostici» in cui emerge un conflitto centrale. In questo caso sono in gioco, tra l'altro, le proprietà delle terre nel Negev e, sotto la superficie, si scontrano interessi etnonazionali con valori più liberali. Ma quando la storia delle macerie viaggia tra attivisti, giornalisti e politici situati in altre parti del mondo, con essa si spostano anche le coordinate del conflitto. Anna L. Tsing (2005) propone una «etnografia delle connessioni globali» che si articola attraverso «zone di attrito culturale». Connessioni, che mettono in luce fino a che punto lo stesso spazio può assumere significati diversi per attori diversi. E' qui che entra in gioco la metafora dell'attrito: esso produce il movimento tra le connessioni. Altri, in stile più sobrio, come Stephen Reyna, hanno proposto per casi del genere un ricorso alle teorie dei sistemi complessi (2007). Detto brevemente, si dovrebbero analizzare tutte le strutture che sono rilevanti, senza però ridurre l'una ad un mero riflesso dell'altra; le relazioni tra le strutture singole sono quindi come catene di eventi.

Una «storia che viaggia» Qui non cerco di fare altro che accennare alcuni momenti chiave di queste catene. Ad Al-Twail, un insieme di circa venti baracche di lamiera e tende nel deserto del Negev (Israele), venivano spesso i bulldozer della polizia israeliana: in un anno cinque volte ho osservato come le baracche o le tende sono state demolite. Durante le demolizioni, di solito noi stavano un po' da parte, osservando come i trattori della polizia afferravano le lastre di lamiera. A volte i ragazzi gettavano qualche pietra, o un poliziotto gridava una parolaccia, o entrambe le cose. Appena che bulldozer e poliziotti erano spariti all'orizzonte noi ci siamo seduti tra le macerie. Qualcuno ha acceso un fuoco per preparare del tè; poi abbiamo iniziato a ricostruire. Poco dopo sono venuti i giornalisti e gli attivisti. Nel Negev esistono molti movimenti che si impegnano per i diritti dei beduini; sono gruppi che si ispirano a valori liberali e hanno nomi come Forum per la coesistenza o Forum insieme, ecc. Durante i weekend, i gruppi organizzavano «giornate dell'attivismo» ad Al-Twail e in posti simili; venivano casalinghe annoiate, ragazze con capelli rasta, e quasi sempre un fimmaker indipendente. Una volta è venuto anche un deputato del parlamento israeliano e ha piantato un albero di olivo; un atto simbolico. Poi signori della Croce Rossa hanno portato venti tende di emergenza. Un'altra volta un gruppo di donne ha organizzato uno spettacolo di pupazzi. Yani Nevoh, un professore di filosofia e portavoce del «forum insieme», portava spesso un megafono. Una volta un attivista è stato arrestato e il professore è riuscito a liberarlo con il suo megafono. Una casalinga una volta ha pianto dicendo che non sapeva come raccontare la storia delle macerie ai loro bambini. E io stavo lì in mezzo, spesso un po' goffo. Michal, femminista e giornalista, ha scritto una serie di articoli sulle demolizioni; ha parlato di dodici famiglie rimaste senza tetto; una «catastrofe umanitaria». Sul livello degli attivisti e giornalisti l'azione collettiva, semplificando la diversità di approcci e ideologie, esprime la ricerca di altri modelli di convivenza secondo valori liberali e quindi si oppone alle politiche etnonazionali promosse dai fautori delle demolizioni. Un blogger statunitense, il cosiddetto Mr. Shergald, ha scritto sul blog My Left Wing che lo trova «allucinante» che ai «tempi d'oggi» potevano ancora accedere cose del genere; più specificamente trovava la storia «estremamente turbante». Dal punto di vista di molti osservatori lontani, gli eventi sembravano costituire in primo luogo un'occasione per manifestare il proprio buon senso civile; quello che conta qui è in primo luogo un'affermazione del sé. Detto brevemente, il conflitto centrale sembra collocato qui tra la propria bontà («coscienza civile») e la cattiveria incivile nei posti remoti. Al-Twail in ebraico si chiama Gva'ot Goral e la zona è destinata a diventare un parco naturale: la cosiddetta “foresta degli ambasciatori”, pomposamente inaugurata con retorica etnonazionale. Con il tempo sono diventato amico di Rhiad Al-Talalka, arabo-beduino da quelle parti. Durante la prima demolizione è stato demolito il suo caravan, poi egli ha costruito una baracca che poi è stata ridemolita. Poi ha ricevuto dei soldi dal Forum insieme per l'ennesima ricostruzione, raccolti durante una manifestazione. Qualche volta Rhiad e io facevamo delle gare in macchine sfacciate attraverso la valle, altre volte bevevamo tè o mangiamo pollo fritto. Ma nelle «tende di emergenza» della Croce Rossa veniva raccolta soprattutto la spazzatura. Un giorno poi mi ha portato a casa sua, in un altro paese. Che sorpresa: qui abita tutta la gente di Al-Twail; fratelli, cugini, figli, moglie, perfino alcune pecore e i resti delle macchine sfacciate. «Tutto il paese Al-Twail non è che una “finzione”?» ho chiesto ingenuamente. La terra del quartiere dove ora abita Rhiad Al-Talalka è considerata proprietà di un'altra confederazione beduina. Ora gli Al-Talalka stanno cercando di riaffermare la proprietà di Al-Twail, il luogo dove hanno abitato durante il regno ottomano, ora anche la «foresta degli ambasciatori» in spe. Sotto voce racconta Rhiad, non avendo molte altre possibilità economiche, loro sperano anche nei sussidi che spettano a beduini che rinunciano alla loro «proprietà tradizionale». Su questo livello l'azione collettiva sembra in primo luogo una pratica di resistenza non convenzionale; in poche parole, quello che conta qui è non è esattamente ciò che conta sugli altri livelli. A questo punto la storia può sembrare un po' come a Babele: tante lingue diverse, malintesi voluti e non. Per certi versi, gli eventi sono stati reinterpretati a livelli diversi secondo parametri diversi. Le interazioni «solidali» si basano su verità che si escludono quasi a vicenda. Quello che mi preme di rendere evidente è che, al contrario di quanto presume il senso comune, certe forme di «solidarietà globale», per poter funzionare, non richiedono necessariamente omogeneità o comprensione reciproca. Detto brevemente, l'«informazione», viaggiando, si trasmuta: spezza a volte la verità, ma non la solidarietà. Ed ecco qui, un barlume della virtù antropologica principale, quella di essere pronti a rivedere il proprio pensiero alla luce dell'esperienza.